Lo sguardo chiaro di Elliott
Il mio primo incontro con Elliott Carter è stato letterario prima ancora che musicale e risale agli anni Settanta, quando ero studente. Avevo nella mia biblioteca di casa una raccolta di poesie di Robert Frost e, appassionato alla letteratura francese del Novecento per via dei miei studi al Lycée Chateaubriand di Roma, subivo molto in quegli anni il fascino della retorica solenne e ricercata di Saint-John Perse.
Mi incuriosì trovare un giorno, nel catalogo di un compositore americano che non conoscevo, Carter per l’appunto, pezzi collegati a questi due scrittori che avevo letto ed amato. Cominciai ad interessarmi. Da studente di Conservatorio e giovane pianista pieno di entusiasmo militante per la musica contemporanea, tentai di procurarmi gli spartiti dei Three Poems of Robert Frost e del Concerto for Orchestra. Negli anni Settanta, però, la musica del Novecento nordamericano circolava assai poco in Italia, se non per i nomi, più citati che realmente conosciuti, di Charles Ives e di John Cage.
L’occasione dell’incontro personale si diede più tardi, nel 1984, quando proposi di invitare Carter con altri compositori nordamericani al Festival Pontino, in quell’edizione dedicato agli ottant’anni di Goffredo Petrassi. Iniziò così, con Riconoscenza per Goffredo Petrassi, la mia amicizia con Elliott e Helen, dedicatari di The Classical Style di Charles Rosen che invitai in Italia, l’anno successivo, nel 1985, avendo nel frattempo maturato l’interesse per la musicologia.
Il filo rosso della letteratura continuò a legarci. Tra altri pezzi, compose su mio invito Con leggerezza pensosa, ispirato alle Lezioni americane di Italo Calvino e Tempo e tempi da Satura di Eugenio Montale. Colpito dall’immagine così carteriana della poesia di Montale per la quale «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano», ne inviai il testo ad Elliott. Alcuni mesi dopo mi vidi recapitare per posta questo straordinario piccolo gioiello della sua ultima produzione.
Tra le numerose nostre conversazioni ne ricordo una, particolarmente intensa, avvenuta nel 1988 durante una passeggiata al Greenwich Village di New York, nella quale volle condurmi fino alla casa di Edgard Varèse. Di fronte al 188 di Sullivan Street mi raccontò così, con la semplicità e vivacità che lo caratterizzavano, le vicende per me autenticamente fiabesche dell’avanguardia newyorchese, da lui vissute in prima persona.
Uomo di profondo pensiero, Elliott comunicava la sua umanità piena e generosa attraverso il suo sguardo chiaro, attraverso l’energia complessa della sua musica. Ritrovai queste doti assolutamente integre anche nel dicembre 2009, quando al compimento dei 101 anni gli feci visita, con mia moglie Antonietta e i miei due figli Chiara e Giovanni, nella sua casa di New York. Congedandomi, sulla porta, affiorò nel suo sguardo, per un attimo, un velo di malinconia, di dolore del tempo: un presentimento forse, delicatamente dissimulato per riguardo all’ospite, che, come aveva scritto nella poesia Montale, eravamo al «dirsi addio, non arrivederci».
Raffaele Pozzi “Elliott’s Clear Gaze”
My first encounter with Elliott Carter, dating back to the 1970s, came about through literature rather than music. I then had in my personal library a collection of the poetry of Robert Frost, while during the same period I found myself under the spell of the solemn and recherché rhetoric of Saint-John Perse, discovered as a student of twentieth-century French poetry at the Lycée Chateaubriand in Rome.
My curiosity was piqued when I noticed that the catalogue of an American composer I had previously never heard of – Elliott Carter – showed works related to those two poets whose works I loved to read. This set me off. As a conservatory student and young pianist militantly enthusiastic about contemporary music, I tried to find scores of Three Poems of Robert Frost and the Concerto for Orchestra. In the 1970s, however, American music of the twentieth century was hardly known in Italy, except for Charles Ives and John Cage, who were mentioned by name but by no means familiar in musical practice.
The opportunity for a personal encounter with Carter came only later, in 1984, when I proposed to invite him, along with other American composers, to attend that year’s Pontino Music Festival, marking the 80s birthday of Goffredo Petrassi. So it was that Riconoscenza per Gofredo Petrassi became the starting point of my friendship with Elliott and Helen Carter, twin dedicatees of The Classical Style of Charles Rosen, whom I invited to Italy the following year, 1985, having developed in the mean time a strong interest in musicology.
The red thread of literature continued to unspool, leading to – among other works composed at my invitation – Con leggerezza pensosa (an instrumental work inspired by Italo Calvino’ s Lezione americane) and Tempo e tempi (a vocal setting of part of Eugenio Montale’s Satura). Struck by the quasi-Carterian imagery of Montale’s poem – for example “Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano” – I sent the text to Elliott. A few months later I received a reply by mail: that extraordinary jewel of his late period.
Among our numerous conversations, one in particular stands out. It took place during a visit to Greenwich Village in New York City, in the course of which he took me to see the house of Edgard Varèse. Standing there, in front of 188 Sullivan Street, he recounted for my benefit, with all the simplicity and vividness that were typical of his manner, what to me were the near-mythical events of the New York avant-garde that he had personally lived through.
A profoundly thoughtful man, Elliott communicated his complete and generous humanity through a gaze that was clear and through the complex energy of his music. When, together with my wife Antonietta and my two children Chiara and Giovanni, I visited him at his home in New York in December of 2009, on the occasion of his 101st birthday, I found these qualities of his undiminished. Only as he stood in his doorway to see us off did his gaze for a brief moment take on a fugitive cast of melancholy, the pain of age: perhaps a presentiment, thoughtfully masked out of consideration for his visitors, that, to quote the verse of Montale, “we were saying ‘farewell,’ not ‘until next time.’”